Magna Carta
Comune di Rimini - Aparte - Palazzo del Podestà
dal 24 settembre 2020 al 28 giugno 2021
A cura di Massimo Pulini
Costruite da sedimenti di geografia e frammenti di storia, che affiorano da un naufragio di parole, disegni e pitture, le carte più vaste assomigliano al tetto di una grande bidonville africana visto dal finestrino di un aereo, dove la paglia si sovrappone alla lamiera, la ruggine si cuce al fango e dove le tenaci esistenze umane si intrecciano a forze più arcane, all’enigma delle rocce, alla dura corazza degli alberi e alla transumanza guardinga delle comunità animali. Le stesse vicende dispiegate sembrano il risultato di stratificati tramandi generazionali di interi villaggi, grazie ai quali è venuto a modificarsi il palinsesto della mappa e forse anche lo svolgimento dei fatti di quel che ci viene raccontato. Una epopea selvaggia articolata per forme simboliche, con nugoli di animali in disfida per il dominio delle lande, tra i signori del volo e quelli della corsa, tra erbivori e carnivori, tra becchi e fauci. Trofei di teste branditi dalle cicogne, si alternano ad adunate intorno alla pietra maculata dove si intonano ululati per ordire il riscatto.
Altre volte le scene sembrano sancire un accordo sacro tra la stirpe degli uomini e quella dei lupi, come se da quel patto derivassero due distinte metamorfosi: del lupo in cane e del cacciatore in viandante. Ci sono anche altre trasformazioni che ibridano minerale, vegetale e animale. Alberi migratori e uccelli dalle lunghe radici, nuvole navigabili, laghi salati e uomini palustri percorsi da insetti incolonnati. Ma come un vasto romanzo di ambientazione naturale entro il quale si incontrano episodi isolabili e miracolosi soggiorni, penso all’Odissea o ai Viaggi di Gulliver, tutti i capitoli restituiscono la sensazione di essere parte di un’unica ancestrale storia.
Mi hanno sempre fatto pensare a illustrazioni non gregarie, che hanno la forza primigenia di partorire esse stesse dei libri, di far sgorgare racconti, come una sorgente di mitologia, ribaltando una genesi che non principia dal verbo, ma dalla visione. Qualche tempo fa, curando una mostra dedicata a Guercino, mi sono trovato a paragonare il suo sguardo sulla natura e sulla gente di paese, al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. La vasta produzione di disegni caricaturali e di cronaca dell’artista centese, oltre agli innumerevoli paesaggi che ebbero origine indipendente e intima, formano un immenso racconto storico, che partendo da un genere quasi picaresco diviene tragedia e commedia, idillio ed epica. Anche se attraverso percorsi e visioni molto differenti da quelle del suo conterraneo Guercino, avverto anche nelle carte di Denis Riva il dispiegarsi di una cosmogonia dal sapore letterario. Da molti decenni si è trovata in una posizione di esilio la millenaria relazione tra pittura e narrazione, al punto che l’urgenza di raccontare storie in immagini è sopravvissuta ai vari diluvi dell’arte novecentesca, recintandosi in una riserva indiana, nello storico legame col libro. Sin dal medioevo l’atto di narrare e quello di mostrare hanno trovato dimora nella stessa pergamena, nei codici e nei corali, e quella carta di pelle animale, come fosse un altro patto di sangue, intrecciava pittura, scrittura e musica. Pure certe opere esposte, specie tra quelle eseguite per montaggio e ritagli, assomigliano a un antico cabreo, a quella cartapecora che trasformava i terreni in disegni, che ne classificava la coltivazione o ne registrava la condizione boschiva. Nel maneggiare oggi il termine illustratore, entro un testo critico di arte contemporanea, si va incontro al malinteso, equivale quasi a iscrivere le opere e l’autore in una posizione accessoria, ma si è smarrito il senso della parola illustrare, che in origine indicava un atto portatore di luce, quell’illuminazione che apre squarci all’immaginario. Sembra in verità che qualcosa stia cambiando e si stanno sfumando i confini classificatori di questi scaffali che assecondano un’ostinata pigrizia culturale. Guardando le grandi carte dipinte si percepisce un’intensa ricerca sperimentale che a un certo punto del proprio percorso ha deciso di aprirsi alla favola, senza preoccuparsi del rischio di genere. Anche qui sembra essersi stipulato un armistizio, una Magna Charta Libertatum scritta a memoria di un universale diritto creativo.
Le migliori prossimità che ho potuto rilevare tra il titolo della mostra e le opere di Denis Riva sono racchiuse in questo perimetro di senso, nell’accordo tra i tre regni naturali e nel terreno sopra il quale vengono dispiegate le storie.
Massimo Pulini